La storia di Badia Petroia inizia nel 960 con la costruzione dei monastero benedettino e della sua chiesa che prende il nome di S. Maria al quale, come risulta da un documento dei 1781, si affianca quello di S. Egidio.

Dell’antico monastero parte è oggi usata come chiesa parrocchiale, parte è in rovina e il resto appartiene alla famiglia Rossi. Infatti, come si legge in una lapide murata all’interno del portale di ingresso al giardino, papa Pio VI il 4 Agosto del 1781 diede in concessione con i terreni rimasti, quelli di Badia Petroia e Badia S. Cassiano, ai gemelli Tommaso e Giambattista Rossi, beni che in seguito riscattarono con una ingente somma di denaro.

I benedettini costruirono l’Abbazia per conto di Ugo dei Marchesi di Colle (località vicino a S. Leo Bastia), che poi diventarono anche i Marchesi di Monte S. Maria Tiberina il cui vero nome era Marchesi Bourbon.
In una pergamena che si trova nel monastero di Passignano vicino a Figline Valdarno, si legge che nel 972 Guido fece una donazione al Monastero di S. Maria di Petruvio quindi a quell’epoca il monastero doveva essere già stato costruito ed era funzionante. Con il passare del tempo il monastero divenne ricco e potente, tanto che i suoi possedimenti partivano da Mucignano fino a Badia S. Casciano, dal fiume Nestore all’Aggia e altri erano dislocati nel distretto di Perugia e Cortona.

Nel 1202 l’abate Magno, per ragioni politiche e per ottenere protezione, fece un trattato con Perugia e due anni dopo lo stesso abate, anticipando la voglia di Città di Castello di riprendrersi con la forza i possedimenti che erano nel suo distretto, fece un trattato assoggettando la popolazione a pagare un tributo a Città di Castello in cambio della protezione militare, in caso di necessità. Nel 1226 sempre l’abate Magno fece un simile trattato con la città di Cortona.

Durante il Medio Evo alcuni discendenti dei Marchesi Bourbon diventarono abati del convento e rettori di alcune parrocchie; questo, probabilmente, portò alla inevitabile rovina della abbazia tanto che nel 1571 il monastero fu addirittura chiuso, perchè non poteva più mantenersi e fu dato in concessione a don Pietro di Giovanni, abate della chiesa di S. M. Maggiore di Città di Castello, la quale era stata fondata e quindi in passato dipendeva dai monaci di Petroia. Oggi dell’antica chiesa è utilizzata solo una parte della navata centrale, il transetto e la cripta che, fino a pochi anni fa, era adibita a cantina.

La Chiesa
La chiesa è in stile romanico-lombardo a croce latina con tre navate. L’altezza delle colonne in pietra arenaria, nella zona riservata anticamente ai fedeli, rivela il proposito non comune di grandiosità non riscontrabile in altre abbazie dello stesso periodo in queste zone dell’Umbria, con la tribuna absidata rivolta a levante. Il campanile non esiste più, eccetto la parte bassa; la facciata è integra e ai lati della porta ci sono due colonnine in marmo con capitelli romanici che probabilmente sorreggevano due edicole con immagini sacre.

Sullo stipite di destra c’è una formella scolpita in bassorilievo con la rappresentazione di uno stelo e due foglie di fattura sicuramente preromanica.
Entrando, nella destra troviamo i resti del campanile a pianta quadrata, che si sopraelevava di poco sul frontale della chiesa. La parte sporgente del campanile fu danneggiata gravemente dal terremoto del 1917 e quindi, essendo pericolante, fu demolita nel 1919.

Le campane, dopo lungo tempo sistemate su una struttura metallica, donata dalla Pro-Loco, vicino alla casa parrocchiale, furono sicuramente fuse dal maestro Tubia che lavorava nella vicina Cortona.
Sulla più grossa è incisa la data del 1330, sulla minore c’è 1334; l’iscrizione incisa sulle campane ci fa capire che furono fuse per proclamare la gloria di Dio e la liberazione della patria. La navata di sinistra è completamente scomparsa per la costruzione di due case coloniche. Parte della navata centrale e di quella di destra sono senza tetto, fungendo così da atrio alla odierna chiesa parrocchiale.

Le colonne dell’atrio, di forma poligonale, in pietra arenaria, hanno i capitelli molto bassi e smussati agli angoli, che ci ricordano lo stile lombardo.
Nel capitello dell’arco vicino a ciò che resta del campanile ci sono incise le lettere S-Q-S separate da motivi triangolari che vogliono certamente significare «Sum Qui Sum» «lo sono colui che è».
La facciata dell’attuale chiesa è costituita da un muro costruito all’inizio del XV secolo fra il coro dei monaci e la parte riservata ai fedeli e fu innalzato perchè i vari terremoti avevano danneggiato più volte l’edificio.

Le formelle in terracotta con motivi lineari, nodi incrociati e disegni di grifi, inserite all’esterno del muro, appartengono sicuramente ad una costruzione più antica: infatti sono in stile longobardo (quindi anteriori all’arte romanica) ma non se ne conosce la provenienza; c’è poi una figura più grande che sembra un cavallo senza testa. La chiesa è divisa in otto campate (compreso il transetto) da colonne con archi a tutto sesto; la copertura è a capriate con le absidi laterali precedute da una volta a crociera. E costruita su più piani, il più alto è il transetto, c’è poi il coro (l’attuale chiesa) e più in basso la parte riservata ai fedeli (che ora è l’atrio) e sotto il transetto la bellissima cripta.

Fra la navata centrale e il transetto avrebbe dovuto esserci una cupola della quale fu edificato il solo quadrato che si arricchisce di un motivo a piccole arcate cieche, dal quale partono quattro pennacchi con archetti che dovevano servire per il passaggio alla forma ottagonale (arte bizantina).
Nell’abside centrale, costruita in maniera mirabile fra le più belle e grandi del periodo romanico, si apre una finestra senza strombatura il cui arco di protezione è costruito con piccoli cunei di pietra e cotto alternati.

Dopo il terremoto del 1403, il comune di Città di Castello fece rafforzare l’arco di trionfo con un altro arco in mattoni, costruito da due muratori del luogo e dopo tale modifica, sembra che la chiesa non abbia subìto ulteriori trasformazioni.
Dal presbiterio partono tre campate che si posano su quattro colonne lisce poste su alti dadi di pietra, sormontate da capitelli in stile romanico. Una colonna ha il capitello dorico adattato ad un frammento in pietra con motivi preromanici posata su un dado di granito.

La Cripta

I fusti delle colonne, alcune in travertino o granito, altre in pietra arenaria, sono di diversa altezza e posano direttamente su un semplice dado seminterrato o su un plinto di pietra quadrata; uno addirittura presenta una base a campana.La vasta cripta triabsidata del XII sec. si estende sotto l’intero transetto e vi si accede attraverso un’interessante apertura semplice e rozza, composta da due mensole massiccie, affrontate, che si reggono a spinta formando il caratteristico architrave. Le volte, divise da fasce, hanno pianta quadrata e sono a sesto rialzato.
La volta dell’abside maggiore ricade su mensole, mentre le volte a crociera ricadono, nel centro, su pilastri e colonne e ai lati su lesene.

Guardandole sembra impossibile che reggano il peso di gran parte del transetto tanto sono esili e leggere. All’ingresso della cripta c’è un capitello arcaico in pietra a forma di piramide rovesciata e, data la sua rozzezza, è difficile datarlo con sicurezza senza particolari procedimenti. Nella fascia esterna dei pilastro sinistro è stata riutilizzata una lastra, in pietra scolpita, che rappresenta in modo stilizzato, la palma dell’abbondanza.
Altri tre capitelli, uniti direttamente al fusto delle colonne, hanno la forma rudimentale del capitello cubico preromanico.

Le tre colonne in pietra, di cui una poligonale, si uniscono al capitello tramite una pietra ad anello. Nell’ambiente che collega la chiesa e la cripta, su un muro dell’antico monastero, probabilmente del sottoportico del chiostro romanico, distrutto come sembra nel 1387, restano due arcatelle con gli archi in pietra a tre incassi raccolti su mensole sorrette da un pilastro.