All’inizio del Duecento la sua opera principale, il “Liber abaci”, introduce i numeri arabi, riscopre la sezione aurea e utilizzando i simpatici animali spiega la “sequenza” che porta il suo nome

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Della vita di Leonardo Pisano, oggi più noto con il nome di Leonardo Fibonacci o semplicemente con il patronimico Fibonacci, si sa poco: nato a Pisa intorno al 1175, da ragazzino passò alcuni anni a Bugia, città dell’odierna Algeria, dove il padre, facoltoso mercante e rappresentante dei commercianti della Repubblica di Pisa, lo avviò allo studio delle tecniche aritmetiche che gli studiosi arabi avevano importato dall’India e stavano diffondendo nel mondo musulmano.

A sua volta Leonardo esportò questa matematica nuova in Italia e di qui in Europa: matematica utilissima nei commerci per la conversione da una valuta all’altra o da una misura lineare o di capacità all’altra, in un mondo dove le unità di misura variavano di città in città e dove i calcoli erano resi difficili dalla notazione romana. La matematica indiana, adottata dagli Arabi, aveva sulla notazione classica alcuni vantaggi decisivi: ricorreva alla base dieci, dunque a pochi segni per indicare le cifre; adottava lo zero, che sorprendentemente i Greci, con tutto il loro genio, non avevano scoperto; infine impiegava la notazione posizionale, per cui una cifra indicava le unità, le decine, le centinaia e così via a seconda della posizione che occupava in seno al numero.

Tutto ovvio per noi, ma a quel tempo si trattava di una vera e propria rivoluzione che incontrò molte opposizioni: a Firenze l’aritmetica araba non fu accettata fino alla fine del Quattrocento. Eppure questa notazione nuova permise il grande sviluppo dell’algebra e in genere della matematica prima italiana e poi europea, che era stato precluso al mondo classico. Che di Fibonacci si sappia poco ha consentito, paradossalmente, al giornalista Paolo Ciampi di scrivere un libro godibile e suggestivo ( L’uomo che ci regalò i numeri. La vita e i viaggi di Leonardo Fibonacci;Mursia, pagine 184, euro 17,00). La scarsità di notizie su Pisano ha infatti trasformato quella che poteva essere una cronaca piatta in una narrazione seducente, sorretta dall’immaginazione, dalle interpolazioni e dalle congetture e vivificata da una lingua scorrevole e ricca, senza indulgenze alla sciatteria che affligge la prosa di tanti giornalisti. Ciampi, che non è matematico, e se ne duole, subisce il fascino di questa disciplina che, al di là dei suoi aspetti pratici, contiene una forte valenza estetica (secondo il filosofo bizantino Proclo del V secolo, «dove c’è numero c’è bellezza» e secondo il matematico inglese Godfrey H. Hardy, «nel mondo non c’è posto per la matematica brutta»).

Ma per apprezzare la bellezza della matematica occorre un lungo apprendistato, che non ammette scorciatoie e che scoraggia i più (ma che sia invece, questa avversione per le formule, un effetto deleterio della pochezza di certi insegnanti?). L’autore si pone anche il problema, antico e irrisolto, se i numeri esistano oppure siano creazioni della mente umana: alla questione il fisico ungherese-statunitense Eugene Wigner (Nobel 1963) dedicò nel 1960 un articolo famoso, ‘L’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali’, dove si chiedeva, senza trovare una risposta, come sia possibile che un’invenzione in apparenza arbitraria dell’uomo consenta di descrivere con precisione i fenomeni della natura, che certo non sono una nostra creazione. Torniamo a Fibonacci, che fin da ragazzino viene a contatto con quella che all’epoca era la civiltà più raffinata del Mediterraneo: gli Arabi avevano preservato ciò che era sopravvissuto della cultura classica traducendo molti testi filosofici e matematici greci, preludendo così alla fioritura dell’Umanesimo italiano.

Ma avevano anche raccolto l’eredità tecnica degli Alessandrini, dando vita per esempio a un’importante tradizione nel campo della fabbricazione degli automi, che avrebbero poi consegnato all’Europa. In questo fervore d’intelligenza e di creatività cresce e matura il nostro Leonardo, che nel 1202 pubblica la prima edizione, manoscritta, del monumentale Liber Abaci, o libro dell’aritmetica, denso di regole di calcolo di radicali quadratici e cubici, di criteri di divisibilità e di problemi svariatissimi di carattere pratico, per lo più legati a questioni di conversione basate sulla regola del tre semplice, del tre composto e così via, sviscerando la nozione di proporzione e altre ancora, risolte con una semplicità che al tempo doveva apparire prodigiosa. Tra i problemi affrontati nel Liber Abaci il più fecondo di conseguenze matematiche è quello dei conigli, animali quanto mai prolifici: data una coppia di questi simpatici leporidi capaci di riprodursi dopo un paio di mesi, con quale ritmo, si chiede Fibonacci, cresce la loro popolazione? E qui il matematico scopre una successione numerica che è conosciuta con il suo nome: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21… dove ogni numero è la somma dei due precedenti. In apparenza la faccenda è innocua, anzi bambinesca, ma questi numeri sono i depositari di una quantità incredibile di proprietà: tanto che dal 1963 si pubblica (quattro volte l’anno) una rivista intitolata ‘Fibonacci Quarterly’, interamente dedicata a questa successione e a oggetti matematici a essa collegati.

Tra gli oggetti imparentati con la successione di Fibonacci bisogna menzionare la sezione aurea, detta anche divina proporzione o numero aureo, che, per uno di quei misteri che collegano matematica e realtà, si ritrova dovunque in natura, contribuendo alla bellezza del creato, e che fin dall’ antichità è stata adottata nelle loro opere da artisti, architetti, musicisti e via elencando. Il corpo umano è una splendida epitome della sezione aurea: per esempio i nostri arti si dividono in segmenti (braccio e avambraccio; coscia e gamba) le cui lunghezze rispondono alla divina proporzione, cioè al numero 1,618… Ciò è fonte di meraviglia e di stupore, quello stupore di fronte al mistero che per Einstein era la vera spinta che sta alla base della ricerca scientifica e della creazione letteraria e artistica.

Giuseppe O. Longo

tratto da “AVVENIRE” del giovedì 16 marzo 2017