Tra i più umili, come Gesù

La fede – dicono – va realizzata nella quotidianità, negli incontri, nel lavoro, nelle scelte, negli affetti e perfino al supermercato. Dio non aspetta in chiesa o nel ritiro, per quanto questi siano gesti importanti, ma nel quotidiano, dove incontriamo l’altro.

di Achille Rossi

Il luogo dove abitano i Piccoli Fratelli del Vangelo è già indicativo del loro stile di vita: una casa tra tante altre disseminate fra gli ulivi della collina di Spello.
Nessun monastero, nessuna clausura, una ricerca di contemplazione vissuta nella condizione della gente comune, particolarmente di quella più povera.
«Noi vogliamo metterci alla sequela di Cristo che ci rivela i Padre e che ha fatto la scelta dei piccoli” ci spiega Ivo, un francese dalla faccia bruciata dal sole e dalle mani ruvide di contadino. “Ci ispiriamo a Charles de Foucauld, che ha vissuto in solitudine nel deserto algerino l’esperienza di Nazareth, ossia il silenzio e la contemplazione. Questa dimensione, però, vogliamo viverla nella quotidianità della gente. Cerchiamo di essere, a modo nostro e con tutti i nostri limiti, una buona notizia per tutti, un segno dell’amore del Padre per i più piccoli».
Il condividere la sorte degli ultimi è molto sottolineato nella vostra spiritualità. Come mai? «E’ la vita che ha fatto Gesù. Noi scegliamo di vivere come la gente più povera per testimoniare che, nonostante tutto, la loro esperienza ha senso, ha dignità. La fede va realizzata nella quotidianità, negli incontri, nel lavoro, nelle scelte, negli affetti e persino al supermercato. Condividiamo con i poveri anche la loro ricerca di giustizia e il loro sforzo per uscire da una condizione umiliante».
Ma Ivo insiste soprattutto sul significato della dimensione contemplativa; «Dio non ci aspetta in chiesa o nel ritiro, per quanto questi siano gesti importanti, ma nel quotidiano, dove incontriamo l’altro. Il volto dell’altro dovrebbe cambiare ogni volta qualcosa in noi. Il Vangelo è chiaro: “Tutto ciò che fate a uno di questi piccoli è a me che lo fate”. Per vivere un cristianesimo autentico bisogna mantenere i due poli: l’eucarestia e l’altro. Adorare per essere capaci di riconoscere Cristo nella quotidianità. Forse è questo il contributo che Charles de Foucauld può portare alla chiesa di oggi».
Sembra che nel vostro stile di vita il lavoro assuma un’importanza fondamentale. E’ davvero così? «Per vivere come tutti occorre lavorare e riportare a casa i soldi necessari per andare avanti. Nei vari loghi del mondo dove le nostre fraternità sono disseminate lavoriamo con la gente più povera in attività umili e modeste: manovali, muratori, minatori, contadini».

UNA FRATERNITA’ DI ACCOGLIENZA

E qui a Spello quale lavoro fate? «Questa di Spello è una fraternità di accoglienza dove si lavora solo per metà della giornata. Al momento, raccogliamo le olive e diamo una mano ai nostri vicini, ma trovare un lavoro diventa sempre più difficile, a causa della disoccupazione. Siamo costretti a cambiare spesso attività o ad accontentarci di un lavoro stagionale». A fratel Ivo la flessibilità proprio non va giù: «E’ un modo di procedere che mette in primo piano il prodotto e non rispetta le persone. Io ti utilizzo fin quando mi servi, poi ti licenzio».
Vivere con i poveri vi mette anche a contatto con i problemi della politica? «Nella politica ci siamo da sempre. Anche alzarsi la mattina e decidere di vivere è un gesto politico. Altra cosa è l’attività di partito. Io credo che abbiamo il dovere di difendere i valori evangelici di giustizia, di rispetto dell’altro. I poveri hanno diritto di vivere una vita degna».
Charles de Foucauld ha scritto che bisogna amare la giustizia e odiare l’iniquità, perciò quando si è spettatori di gravi ingiustizie è necessario denunciarle. «Certamente. Abbiamo l’obbligo di denunciare, restando però ancorati al concreto; rimanere muti di fronte alla miseria e alle lacrime dei poveri è un vero insulto. Occorre soprattutto promuovere la giustizia anche attraverso i gesti semplici. Mia pare che oggi cresca la consapevolezza che esistano situazioni umane insostenibili, per questo non ci facciamo scrupolo d partecipare ai movimenti che desiderano cambiarle».
A proposito di movimenti. Cosa pensa di quello che contrasta la globalizzazione economico-finanziaria attuale? «Sono in Italia da appena dieci anni e non posso dare un giudizio motivato. Ho l’impressione che il movimento di cui parliamo si sia lasciato troppo tentare dalla violenza, ma che oggi stia cambiando posizione. Nel complesso mi sembra una specie di grido di allarme e di disperazione che testimonia l’impossibilità di procedere sulla linea attuale e la sete di un mondo fraterno».
Voi vivete a contatto con le frange più marginalizzate dell’umanità contemporanea. Come fotografate la situazione socioeconomica attuale? «La gente è sempre più povera anche all’interno dell’Occidente. I fratelli che vivono con gli zingari ci raccontano che la vita di questo popolo nomade è diventata più difficile di prima. L’Africa, il continente più disastrato, costituisce un grande scandalo per me. L’occidente, invece che aiutare, alimenta la corruzione e lo sfacelo. E tutto per il profitto, per un calcolo egoistico. Se vuole sopravvivere, il nostro mondo deve attuare un grande processo di conversione e cominciare a chiedersi dove stiamo andando. Sul piano concreto dovremmo smettere di inviare aiuti e cercare piuttosto di realizzare un’autentica giustizia». Ivo fa notare che l’Occidente si accontenta di fare elemosina: «E’ una forma di ipocrisia che impedisce di chiamare le cose con il loro nome. La verità è che noi rubiamo. In Argentina, ad esempio, le multinazionali acquistano grandi estensioni di territorio, cacciano la gente e la costringono a vivere nelle bidonville».
Qui a Spello prima del terremoto circolavano molti giovani. Quale tipo di popolazione giovanile frequenta la vostra fraternità? «Attualmente la nostra capacità recettiva è molto diminuita. Nella casa abbiamo solo nove posti letto e in una stagione, che va da marzo a settembre, possiamo accogliere una quarantacinquina di persone, rispetto alle 250 di prima. Tornando alla domanda, potrei distinguere due filoni: il primo è costituito da quei giovani che hanno già fatto un cammino di fede e che cercano un approfondimento, difficile da trovare nella pastorale delle parrocchie e nella pratica dei riti; il secondo da coloro che non trovano un senso alla vita, al proprio futuro, che non sanno più chi sono anche perché mancano modelli. Noi tentiamo di aiutarli a ritrovare se stessi e il senso della vita, nell’apertura all’altro e nell’ascolto del Vangelo».
E che cosa proponete? «Semplicemente il nostro stile di vita: la fraternità, il lavoro, la preghiera silenziosa. E’ un ritmo equilibrato in cui si fondono dimensione spirituale, lavoro, scambio personale. Non abbiamo televisione, ma nessuno dei nostri ospiti si accorge della sua mancanza. Il dialogo e la lettura la sostituiscono ottimamente».
Potrebbe descriverci il ritmo giornaliero della Fraternità? «Ci alziamo alle 6.30, alle 7.15 c’è una preghiera in cappella, molto semplice perché ognuno possa rifarla una volta tornato a casa, segue la colazione individuale e in silenzio. Subito dopo inizia il lavoro, che termina a mezzogiorno. Dopo pranzo c’è un intervallo di riposo fino alle 15, quando comincia una preghiera silenziosa fino alle 17.30». E’ un periodo di silenzio piuttosto lungo? «Abbiamo bisogno di fare l’esperienza del silenzio e di imparare ad ascoltare. La preghiera silenziosa ci aiuta a non essere protagonisti e a lasciare che Dio si manifesti. Solo nel silenzio possiamo recuperare il senso della gratuità».

MOMENTI DI ASCOLTO

La vostra giornata non prevede la celebrazione dell’Eucarestia? «La celebriamo solo tre volte la settimana alle ore 18, perché non tutti i nostri ospiti sono praticanti e non vogliamo metterli a disagio.Al posto dell’Eucarestia organizziamo dei momenti di ascolto, nei quali ognuno condivide con gli altri liberamente qualcosa della propria vita. Ascoltare l’altro, accogliere la sua parola rimanendo in silenzio è un atto sacro. La nostra giornata termina dopo la cena con un altro momento vissuto insieme in cappella recitando la preghiera dell’abbandono di padre de Foucauld».
Come reagisce la gente di fronte alla proposta del silenzio? «Il silenzio è difficile perché ci mette a nudo di fronte a noi stessi e di fronte a Dio. Per aiutare le persone a coglierne il senso organizziamo una volta alla settimana una giornata di deserto. Il venerdì ci alziamo di notte, prima dell’alba, e ci incamminiamo nel buio verso la cima del Subasio per accogliere il sorgere del sole. E’ una grande metafora della fede: un pellegrinaggio dal buio alla luce».
La Fraternità di Spello ha organizzato anche degli eremi dove ci si può ritirare in completa solitudine. «Più la nostra vita è inserita tra la gente, più è necessario avere dei tempi di deserto per ritrovare se stessi, unirsi a Dio e purificare la nostra capacità di amare gli uomini».
Com’è accolta la Fraternità nell’ambiente ecclesiale e italiano? «Con la chiesa locale c’è un’ottima collaborazione. La chiesa italiana a me pare piuttosto pesante, poco libera, troppo preoccupata di Roma. Ho l’impressione che faccia troppi compromessi col potere e questo non giova alla chiarezza. Per carità, tutti facciamo piccoli compromessi, per questo ci vuole misericordia e umiltà».
Cosa chiederebbe lei a questa chiesa?
«Di rispettare maggiormente il cammino di crescita delle persone, perché il percorso di fede non è lo stesso per tutti. E poi di ricordare che la morale è la conseguenza della scoperta di un amore».
«Il nostro “Nazareth”: accogliere i lontani (o coloro che sono stati allontanati) dalla chiesa, accettando di non essere più capiti dal “Tempio”, ma cercando sempre la fraternità, l’amicizia… la verità. E ripartire “in Galilea” dove la vita è censurata, per riscoprire la speranza con i censurati della storia e saperla cantare… anche con un nodo alla gola e con la paura di essere messi da parte…». Queste parole, scritte sulla rivista dei Piccoli Fratelli che Ivo mi ha messo in mano al momento del congedo, sono davvero la testimonianza della scoperta di un amore.

tratto da: L’altrapagina – num.12 Dic 2002 – www.altrapagina.it