Quando giunge il tempo della Quaresima, bisogna sostituire i bei volatili arrostiti con pesci grigliati o bolliti. Esiste, infatti, nel Medioevo una doppia cucina: quella dei giorni “grassi” e quella dei giorni “magri”. Questa dualità corrisponde a una tensione fondamentale del sistema alimentare medievale, che oppone i tempi ordinari a quelli dell’astinenza, in cui il popolo cristiano deve non solamente astenersi dal consumare ogni tipo di carne, ma anche, in misura variabile a seconda delle diverse diocesi, da ogni genere di grasso di origine animale e perfino dalle uova. Le occasioni di mangiare di magro (la Chiesa usa la parola “digiunare”) non mancano: fra la Quaresima, le vigilie delle grandi feste religiose, i venerdì e i sabati di ogni settimana, si raggiunge un totale che supera i 100 giorni – ovvero quasi un terzo dell’intero anno – tempo durante il quale bisogna accontentarsi di pane, di verdure o di pesce.

Per i poveri, la cucina di magro si confonde con la sempiterna aringa, che suscita un sacco di lagnanze, o con lo stoccafisso venuto dalla Norvegia o ancora con i merluzzi essiccati della Bretagna che alimentano, per esempio, la Navarra cinta dai Pirenei. Ma, alla tavola dei ricchi, i giorni di magro sono al contrario l’occasione per gustare una cucina raffinata, a base di prodotti costosi: pesce di mare fresco –fatto giungere in una notte da Parigi a bordo di carri trainati da cavalli veloci, venuti da Dieppe di gran carriera o bei pesci d’acqua dolce pescati con regolarità negli stagni e nei vivai.

Questa cucina di magro, tuttavia, è spesso l’esatta replica di quella dei giorni di grasso: le carni vi sono imitate, travestite, “contraffatte”, come si dice all’epoca. Molti libri di cucina presentano così delle ricette doppie: una versione per i giorni di grasso e una per quelli di magro, come se si volesse evitare ogni tipo di rottura nelle abitudini alimentari. Non è impossibile che queste usaze siano nate nelle abbazie, dove il magro era la regola e dove tutta l’arte del frate cuciniere consisteva nel dare l’illusione di quello che non si poteva consumare. Perché il vero valore, per le classi dominanti, si situa proprio dalla parte della  
carne, che è apportatrice di forza, virtù fondamentale dei cavalieri divenuti l’élite della società.

Ma cucina dei giorni grassi non vuol dire cucina grassa. Le fritture sono previste, ma non hanno che un ruolo modesto, salvo che nei Paesi mediterrani: effetto della cattiva qualità degli oli o del loro costo? In ogni caso, la cucina medievale corrisponde abbastanza ai nostri criteri dietetici. Le salse che preparano i cuochi restano così leggere: insieme alle spezie, non vi entra che un elemento acido, aceto, agresto o anche vino, quest’ultimo molto più leggero all’epoca rispetto al prodotto al quale siamo abituati oggi; il composto è legato in genere con la mollica del pane. Tra gli ingredienti, lo si nota subito, non figurano né farina, né burro, né olio.

Articolo tratto dalla rivista “Medioevo – Un passato da riscoprire” DeAgostini – Rizzoli Periodici