Una delle più conosciute e citate parabole, tra le molte che costellano i Vangeli, è senz’altro quella del “figlio prodigo”, storia di un giovane scapestrato che esige dal padre in anticipo la sua parte di eredità per scialacquarla nelle gozzoviglie, finchè da ultimo si pente e ritorna a casa. Ma prima della resa, per mantenersi dopo aver finito tutti i soldi si impiega come guardiano di porci. Sfugge ai più il significato simbolico di questo particolare volutamente inserito dall’evangelista: agli occhi del pio Israelita, infatti, non esiste animale più immondo del maiale, per cui la scelta del ragazzo appare come il fondo dell’abiezione, peggiore delle precedenti gozzoviglie e sregolatezze.
Questa è la bottega del macellaio che nel Medioevo veniva chiamato “beccaio”.

Questo elemento appare come uno degli spartiacque più profondi tra la cultura ebraica e quella dei popoli cristiani, dal momento che, almeno nell’Alto Medioevo, quello del porcaro era uno dei mestieri più stimati e tenuti in grande considerazione presso l’opinione pubblica.

L’Editto di Rotari, la prima raccolta di leggi emanata in Italia dopo la fine dell’Impero Romano dai Longobardi nel 643, evidenzia come la categoria lavorativa più tutelata fosse quella dei pastori, e al loro interno in particolar modo i porcari: chi avesse ucciso uno di loro sarebbe stato condannato al pagamento di una multa di 50 lire, cifra esorbitante per l’epoca, contro le 20 di chi si fosse reso colpevole dell’assassinio di un contadino. Quindi, secondo la mentalità dei nuovi padroni, la vita di un guardiano di porci valeva due volte e mezzo quella di un agricoltore. Ma questo non deve stupire più di tanto: era la struttura stessa dell’economia longobarda, di tipo silvo-pastorale, che induceva a questa sopravvalutazione della professione del porcaro, e per di più la carne di maiale era presso i popoli germanici la preferita per l’alimentazione.

Inoltre l’ambiente naturale dell’Italia del periodo, devastato e spopolato dai decenni di guerre tra Bizantini e Goti che avevano preceduto l’arrivo dei Longobardi, offriva tutto lo spazio e il nutrimento necessario a impiantare un florido allevamento di quell’animale. Questo si concentrava in particolare nella Pianura Padana, già nota in epoca romana per i suoi allevamenti di suini che fornivano la carne, fresca e salata, per il nutrimento delle legioni; l’arrivo dei Longobardi dette un ulteriore impulso a questa attività, favorita dalla presenza sul posto di fitte selve di querce che offrivano ghiande in quantità, di vaste zone paludose e brughiere.

Un vero e proprio esercito di porcari era impiegato nella sorveglianza degli animali. I maiali poi potevano usufruire, per la loro alimentazione, anche degli spazi dei campi, una volta terminato il raccolto e prima della nuova semina, quando al suolo restavano le stoppie.

Così in epoca altomedievale il maiale era il vero re della foresta. Le testimonianze documentarie concordano nel darci l’idea di un numero impressionante di bestie tenute insieme in grandi branchi: per esempio, nel X secolo il monastero bresciano di S. Giulia riceveva come decima dagli abitanti della selva di Migliarina, presso Carpi, 400 maiali. Se questo numero rappresentava la decima, ciò significa che il totale di bestie allevate nella selva doveva raggiungere le 4000 unità! Ancora, la decima dei maiali pagata dai coloni della zona di Legnago, nel veronese, ai loro signori era, sempre nel X secolo, di 355 capi, cifra perfettamente in linea con quella precedente.

UN BOSCO DI SETTECENTO MAIALI

Per rendersi conto del rilievo centralissimo che il pascolo dei maiali aveva fra le diverse attività di sfruttamento della foresta basta scorrere i documenti dell’Alto Medioevo da cui si evince che i boschi venivano “misurati” direttamente n base al numero di bestie che potevano nutrire.

In una delle fonti a noi pervenute – e precisamente l’inventario del monastero di S. Giulia a Brescia – si diceva ad esempio: “Il bosco di Alfiano può ingrassare 700 porci”. Era questa l’unica stima che si faceva, il dato che si riteneva più utile fornire. Dall’importanza del maiale nell’economia contadina consegue il ruolo rilevante dei porcari nella società altomedievale: possiamo desumerlo dalla somma che si pagava al loro proprietario, a titolo di risarcimento, qualora essi venissero feriti o uccisi. Le leggi longobarde (Editto di Rotari, anno 653) prevedono, in questi casi, tutta una scala di valori per le diverse categorie di servi, facendoci capire quale considerazione si aveva delle loro rispettive attività. Scorrendo dunque, la legislazione dell’epoca, verifichiamo che il magister porcarius (maestro porcaro, con due o tre “apprendisti” al proprio servizio) ha il valore più alto in assoluto, pari solo a quello dell’artigiano specializzato (ministerialis) 50 soldi d’oro; 20 soldi “valgono” gli altri pastori (caprari, pecorai, bovari), 20 soldi i contadini.

DIVIN PORCELLO

Fra tutti gli animali d’allevamento, il maiale è senz’altro il più conveniente per una serie di motivi. Come chiunque sa anche al giorno d’oggi, del maiale non si butta via quasi nulla, a differenza di molte altre bestie. Carne, grasso, ossa, cartilagini, pelle, cotenna, tendini, intestini, sangue e persino gli occhi possono avere ognuno un diverso utilizzo, e quello che non si mangia serve nella produzione artigianale: in epoca altomedievale, ad esempio, con la sugna si ungevano i calzari e si confezionavano unguenti. Per questa molteplicità di impieghi, il maiale era considerato animale indispensabile per la sopravvivenza dei contadini; addirittura la legislazione ne vietava, pena la morte, il pignoramento, perchè la sua sottrazione, facendo venir meno la riserva alimentare primaria, poteva significare la fame e la miseria della famiglia. Non possediamo dati circa il suo consumo in epoca altomedievale, ma questo certo doveva essere enorme. Quando la documentazione comincia a contenere dati quantitativi, cioè negli ultimi secoli del Medioevo, in una economia molto diversificata che rendeva disponibili anche altri tipi di carne, vediamo che ancora l’apporto del maiale all’alimentazione umana rimane preponderante. Per fare un esempio, si ritiene che nella Firenze della prima metà del Trecento, a quel tempo una delle metropoli eruropee con circa 100.000 abitanti, la carne suina fosse ancora la più consumata.

LA MACELLAZIONE

Una razza suina medievale invece ancora esistente ai nostri giorni è quella cosiddetta “cintata”, a causa di una larga striscia di colore bianco che attraversa a mezzo il corpo nero. La troviamo raffigurata nel famoso affresco cosiddetto del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti (Siena, Palazzo Pubblico), della prima metà del Trecento; qui l’animale è tenuto legato per una zampa e sembra intento a scovare tartufi (altra utilizzazione che se ne faceva).

Anche le dimensioni erano notevolmente differenti da quelle attuali, alcuni resti archeologici e le testimonianze documentarie hanno permesso di stabilire che il peso di un esemplare poteva variare da un minimo di 32-33 Kg. A un massimo di 80. In una novella di Franco Sacchetti si definisce gravissimo un maiale di 400 libbre, cioè più o meno 130 chili, e il tono meravigliato del narratore ci fa comprendere come allora si ritenesse questo peso – piuttosto scarso per le razze di oggigiorno – assolutamente eccezionale. La carne effettivamente utilizzabile da ogni bestia, quindi, non doveva superare i 50-60 Kg. in media, quanto un piccolo cinghiale odierno. E questo nonostante il maiale vivesse a lungo, molto più di quanto succeda oggi; a esclusione dei lattonzoli che venivano consumati dopo pochi mesi (era infatti piuttosto diffusa l’usanza di cucinarli interiù9 l’animale veniva lasciato crescere fino a tre e anche quattro anni. Il motivo era ovviamente il fatto che non si praticava l’ingrassamento forzato, e l’allevamento brado determinava una crescita lenta dell’animale. C’era poi la friskinga, voce germanica che designava il maiale non più lattonzolo ma neanche adulto, intorno a un anno di vita; anche questo tipo di carne risultava particolarmente gradito.

La macellazione avveniva al termine della stagione delle ghiande, quindi tra novembre e dicembre. La scelta di questo periodo era anche condizionata dalla temperatura, dal momento che in inverno la carne si poteva ovviamente conservare meglio. Nelle raffigurazioni dei mesi, un tema caro all’iconografia e alla letteratura medievali, troviamo invariabilmente novembre o dicembre dedicati a questa attività. In un componimento poetico sui mesi si afferma che “dicembre uccide i porci adulti”.

Nelle immagini il maiale è sempre ucciso da una sola persona; nella realtà invece sono diverse le figure che devono comparire sulla scena della macellazione, da quelli che lo tengono fermo e lo legano a chi nel frattempo prepara la grande quantità di materiale occorrente per la lavorazione della carne. Prima del colpo di grazia il maiale veniva stordito con un martello o con una scure.

L’uccisione avveniva in due modi, a seconda che si intendesse conservare e utilizzare a parte il sangue oppure no. Nel primo caso al maiale si recideva la giugulare con un coltello, quindi lo si appendeva immediatamente a testa in giù in modo da raccogliere in un vaso posato per terra il sangue che fuoriusciva copioso. Il sangue veniva subito rimestato vigorosamente perchè non coagulasse.

Nel secondo caso si vibrava all’animale una stilettata decisa, attraverso le costole, al cuore. Dopo averne calcolato la posizione ripiegandogli sul petto una delle zampe anteriori (il cuore si trova all’incirca a quella altezza).

INSACCATI E SANGUINACCI

A questo punto iniziava la parte più difficile e laboriosa dell’acconciamento della carne. Innanzitutto bisognava raschiare via le setole irsute; questo veniva fatto immergendo il maiale ancora intero in una vasca piena di acqua bollente, quindi il pelame era raschiato via con un apposito ferro. Un altro sistema prevedeva l’utilizzo del fuoco, che per mezzo di torce veniva accostato al corpo dell’animale fino a quando le setole fossero state completamente bruciate. Dopo averlo pulito, il maiale veniva appeso a una trave per le zampe posteriori e sventrato. A questo punto spesso lo si divideva nel senso della lunghezza in due parti, chiamate “mezzene”, che venivano salate per la conservazione. Diversamente lo si poteva tagliare a pezzi per consumarne la carne fresca, oppure cominciavano le complesse procedure per la produzione di insaccati.

Con il sangue, amalgamato alla farina, si preparavano gustose torte la cui tradizione è giunta fino ai nostri giorni. Mischiate con miele oppure con grasselli e frattaglie, esso serviva anche a confezionare dei particolari insaccati come i “cervelati” in Emilia Romagna o il “buristo” (dal tedesco Blutwurst, sanguinaccio) in Toscana.

Quanto ai salumi, insaporiti con le spezie orientali o con le erbe degli orti, infinite erano allora come oggi le qualità che se ne ottenevano, a seconda dei gusti e delle tradizioni locali.

Nelle regioni del Nord Europa molto diffusa era la pratica dell’affumicatura, che permetteva una lunga conservazione della carne.

LO CUCINAVANO COSI’

La carne di maiale fresca si prestava a essere preparata per lo più arrosto. A questo proposito, riportiamo qui di seguito una gustosa ricetta per cucinare il maialino, tratta dal volume A tavola nel Medioevo, edito da Laterza. La versione della ricetta è quella “aggiornata”, che gli autori, Odile Redon, Francoise Sabban e Silvano Serventi, propongono accanto a quella originale, tratta dal ricettario del Mènagier de Paris, summa domestica scritta, verso la fine del XIV secolo, da un anonimo autore francese per la giovane moglie.

MAIALINO DA LATTE RIPIENO

Ingredienti: 1 maialino da latte svuotato, con le interiora; 1 bella lombata di maiale; 450 g. circa di prosciutto cotto; una cinquantina di castagne lessate; 25 uova di cui 20 sode, 300 g. di parmigiano grattugiato, o di grano; 1 cucchiaio abbondante di zenzero in polvere; 3 pizzichi di stigmi di zafferano; sale.

Cuocete la lombata e le interiora a fuoco lento in acqua salata per circa un’ora dal bollore e, dopo 20 minuti, togliete il fegato. Sbucciate le castagne e sgusciate le uova sode. Salate il maialino internamente e preparate il ripieno: frullate la lombata e le interiora e incorporatevi il prosciutto tritato, il parmigiano e i tuorli sodi e le castagne, schiacciati con una forchetta. Se il ripieno fosse troppo sodo, ammorbiditelo con dei tuorli crudi. Salate e unite le spezie. Per valutare i gusto del ripieno, assaggiatene una pallina rosolata in padella e aggiungete, se necessario, sale o zenzero. Asciugate l’interno del maialino e, se necessario, salatelo di nuovo. Ricucite per 2/3 l’apertura praticata nel ventre, quindi riempite il maialino con la farcia, attraverso il foro lasciato aperto, e ricucitelo accuratamente. Disponete il maialino in una pirofila con le zampe ripiegate sotto il corpo e le orecchie avvolte in un foglio d’alluminio per evitare che brucino. Infornate a 200° per circa 3 ore, sorvegliando la coloritura.


 
Note bibliografiche:
Medioevo n.3 (26) marzo 1999 – Andrea Barlucchi
De Agostini– Rizzoli Periodici
Uomini, terre e città nel Medioevo – Electa