Ci troviamo di fronte ad una delle più stupefacenti architetture religiose medioevali del nostro territorio, ad una chiesa-fortezza posta a presidio della Cristianità lungo l’arco che dalla Proenza s’incurva sulla dorsale dell’Appennino. Incerta è la data di fondazione di queste Abbazie Benedettine, però sono stati ritrovati dei documenti che ne parlano fin dalla seconda metà del X secolo.
Nei documenti più antichi il monastero è chiamato Santa Maria in Valdiponte in Corbiniano dal monte omonimo che li sovrasta a est.
L’insediamento dei Benedettini, in queste zone avvenne nel periodo più oscuro del Medioevo.
Questi monaci, fedeli alla regola “Ora et labora”, oltre a pregare recuperavano i terreni abbandonati dopo la caduta dell’Impero romano, accogliendo tutte quelle persone che accettavano di lavorare la terra in cambio di protezione. A chi voleva lavorare con loro, i monaci assegnavano dei terreni da coltivare, con contratti detti “enfiteutici” o “di livello” per i quali i lavoratori dovevano dare dei beni in natura al monastero quali: uova in occasione della Pasqua, una spalla di maiale per la festa dell’Assunzione e quattro capi di pollame per Natale.
Questi tributi venivano poi, ridistribuiti tra i più poveri; infatti ai monaci, le regole, impedivano di vivere del lavoro altrui e di mangiare carne. Nel 1030, essendo in questo monastero venute meno la disciplina e l’ordine, il papa Giovanni XIX decise di mandarvi un suo delegato per ristabilirli. L’abate di nome Pietro restaurò anche le chiese, grazie alle donazioni effettuate in quel tempo all’abbazia, che nel 1111 aveva possedimenti vastissimi. Le chiese parrocchiali dipendenti erano trenta, ognuna retta da un monaco eletto dall’abate, senza alcuna dipendenza dai vescovi che tuttavia, avevano ingerenze sugli affari temporali dei monaci i quali a loro volta, per difendersi, ricorrevano alla Santa Fede, da cui dipendevano direttamente. L’abate Val di Ponte se esercitava tutti i diritti e i poteri di un vescovo compiva la Sacra visita pastorale alle parrocchie soggette al monastero; nominava e rimuoveva i monaci parroci, conferiva l’Ordine sacro del diaconato. Soltanto le ordinazioni sacerdotali e la consacrazione degli oli erano riservati ai vescovi di Perugia e Gubbio.

Architettura
 

Per quello che riguarda la storia artistica dell’Abbazia, occorre dire che, nel corso di secoli, si sono susseguiti diversi mutamenti sia sulla struttura architettonica che nelle opere di abbellimento dell’interno.

La cripta, la parte più antica del complesso, risale al IX secolo. Nel 1030 l’abate Pietro restaurò le chiese; nel 1230 l’abate Oratore fece il chiostro, demolito in seguito forse ad opera dei Saraceni che, in quel periodo, fecero scorrerie nel contado. Nel 1281 l’abate Trasmondo riedificò la chiesa abbaziale ornò il coro di dipinti pregevoli tra cui una tavola di Meo de Siena del 1285, ed abbellì altri luoghi di comune adunanza. Negli anni 1267-1269 fu costruito il campanile, nel 1302 l’abate Ugaccione Monelducci, perugino, fece scolpire il bellissimo rosone della chiesa.
I contrafforti di sostegno della chiesa abbaziale, furono costruiti negli anni 1568-1569 da Pier Lorenzo Bernardi. L’abbazia, già verso il 1300, aveva, quindi, raggiunto la forma e le dimensioni attuali; sul lato nord la grande chiesa, a est i dormitori e il refettorio, ad ovest scriptorium e la biblioteca, a sud la foresteria con l’infermeria. Il grande chiostro che collega tutte le parti del monastero è costituito da due logge sovrapposte, realizzate con colonnine tra loro differenti.
La chiesa, dedicata a S. Maria, è di stile romanico – gotico, ed unica navata, con volte a crociera. Le sue misure interne sono rispettivamente di 30 m. di lunghezza per 15 m. di larghezza. Al di sotto sono ancora intatte; la cripta a tre absidi e un grande ambiente, forse antica chiesa claustrale dei monaci.
La facciata ha un grande portale ad ogine, sormontati da un rosone.
Ancora oggi nella chiesa sono presenti due grandi affreschi che sovrastano gli altari posti vicino al portale d’ingresso su quello di sinistra è raffigurata la Vergine in trono col Bambino tra S. Antonio e S. Bernardino. Ai suoi piedi, tra S. Rocco e S. Sebastiano è collocato il popolo, genuflesso, in preghiera.
L’affresco di destra rappresenta una crocifissione con la Vergine e S.Giovanni Battista; al di sotto sono raffigurati S. Sebastiano e S.Rocco, protettori contro la peste. L’opera è attribuita alla scuola di Fiorenzo di Lorenzo (1492). Nella sala del Capitolo, utilizzata per le riunioni dei monaci, oltre alla crocifissione attribuita a Meo de Siena, c’è un altro dipinto, presumibilmente dello stesso autore, raffigurante la Vergine in trono con bambino ai cui piedi è raffigurato l’abate Trasmondo. A fianco c’è un altro dipinto in cui è effigiato S. Benedetto che ha in mano il libro della Regola monastica. Nella stessa stanza sono state poste tele, di epoche successive, raffiguranti una Madonna della misericordia e una allegoria della castità.

La vita dei monaci

Il monaco benedettino vive secondo le regole, è un uomo dedito a Dio. Trascorre la vita nella preghiera, diurna e notturna. Dorme poco, giacendo, vestito e calzato, sopra una stuoia o un pagliericcio, legge solo libri ricevuti dall’abate; vive in assoluta dipendenza ed obbedienza; si procura il vitto con il suo lavoro, esce dal monastero solo per cause urgenti che riguardano la comunità. Il suo vitto è costituito da focacce; erbe dell’orto e legumi del campo, cacio, pesce e uova. Non usa condimenti; solo per gli ospiti e per gli infermi acquista carne. Nella visita che un Baglioni fece al monastero, nel 1267, gli fu servita soltanto una pietanza di pesce. L’abbazia di Montelabate è sorta per rendere attuabile ciò che il motto delle regole impone “Ora et labora” e l’esempio dato dai benedettini fa si che i periodo oscuro che, in questo periodo, attraversa la chiesa venga superato.
 


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