LE ANTICHE MACINE
A Morena la più vecchia macina dell’Umbria

Mulino dei ricordi

L’ottantenne proprietario continua una tradizione che affonda le radici nel diciassettesimo secolo.

Il più vecchio dell’Umbria e forse dell’Italia centrale è il mulino ad acqua, sito nelle ultime propaggini del territorio del comune di Gubbio, a Morena, quasi al confine con il comune di Pietralunga ed in prossimità delle Marche. In una verde vallata, attraversata da un affluente del fiume Metauro, il mulino è ancora in attività dopo quasi tre secoli e la sua gestione è passata di generazione in generazione, da Pietro Martinelli, al figli Luigi, ai pronipoti (tutti morti in veneranda età) ed infine ad Assuero che da tempo, nonostante abbia raggiunto felicemente i suoi 82 anni, ne è proprietario e provvede alla sua conduzione.

Cinque erano gli ultimi fratelli Martinelli: Assuero, Drusio, Gelasio, Zoè e Metodio. Dei due rimasti, Assuero e Drusio, il primo ha voluto proseguire quell’attività che era stata sempre nel cuore dei genitori, dei nonni e del lontani antenati. Fino al 1940 comproprietario del mulino era anche il cugino Assuero, Ivo Martinelli, poi ritiratosi ma che ancora, forse per un pizzico di nostalgia, è presente nel mulino. Un’altra cugina di Assuero, la signora Albofreda Brunelli, è madre di Bruno che con la moglie gestisce, a pochi chilometri dal mulino, un bar ed una trattoria ove si possono gustare cibi squisitamente genuini, con il sapore di un tempo, spesso accompagnati dal tartufo bianco di questa zona, la cui produzione, però, quest’anno è pressoché nulla a causa della prolungata siccità degli ultimi mesi. Nella sala della trattoria è ben visibile un attestato che il presidente del consiglio regionale Lorenzini ha voluto recentemente attribuire a Ubaldo Brunelli per l’ottima cucina proposta a quanti raggiungono questa località. Il mulino ad acqua si avvale di due macine costruite appositamente a Cantiano (Pesaro) e che, quando l’acqua è sufficiente, possono produrre un quintale all’ora di farina di grano, mais o altri cereali. Il vecchio mulino assolve ancora egregiamente il suo compito per quanti, soprattutto amici e conoscenti di Assuero, vogliono prelevare la farina prodotta col tradizionale sistema.

Tratto da “Il Corriere dell’Umbria” 1990

La rinascita di Molanoce e il Museo del territorio, il piccolo-grande miracolo

A Massa Martana, lungo la E45, la passione per il collezionismo di alcuni ha permesso di ripristinare un antico molino ad acqua, il cui edificio risale al milleduecento. Collezionare legno, ferro, oggetti di ceramica umbra lavorati a mano, ritrovare la loro antica funzione, è spesso un modo d’occupare la propria capacità e sviluppare le proprie conoscenze. Consuetudine ormai diffusa in Umbria, anche grazie ai tanti mercatini dell’antiquariato che vi si svolgono. E’ stato oltremodo impegnativo arrivare a ricostruire un vero e proprio molino ad acqua funzionante, in grado di macinare solo con la spinta di quella, circa due quintali di grano ogni ora, e metterci attorno anche un percorso museale con gli strumenti attinenti al molino ed alle attività che nei secoli vi sono state attuate, la cardatura della lana, la macerazione della canapa, la frantumazione delle noci per ricavarne olio lampante, oltre che la produzione di farine e sfarrati.

Oggi, in molti casi, non esiste più neanche la memoria di come si possa fare per rimettere in movimento strumenti che lavorarono per secoli senza essere stati mai smontati né ripristinati.

Persino nel molino detto di Molanoce, all’interno completamente svuotato, non è stato possibile ricostruirne alcuni macchinari, come ad esempio quello chiamato “làsino”. Era un complesso di leve terminanti con un tronco di cono in legno che serviva ad aprire e chiudere la valvola dell’acqua e che doveva essere manovrato dal mugnaio; attrezzo che attraversava tutto il canale sottostante al pavimento stesso, cioè circa quattro o cinque metri. Con i mezzi attuali ogni cosa è resa facile, ma nessun artigiano moderno sarebbe in grado, utilizzando solo pali e paletti di legno, di riprodurre tale aggeggio, che tratteneva tanta acqua che se lasciata improvvisamente avrebbe sviluppato una potenza pari a due megawatt.

Anche solo accennando a quello che può essere un percorso museale, ovvero ad itinerari che percorrano i luoghi e gli ambienti più significativi della civiltà dell’industria, non si può fare a meno di parlare degli antichi molini. Non a caso personaggi come Leonardo si esercitarono ad ideare macchine sempre più complesse, proprio a partire dai molino ad acqua e da quelli a vento.

Il Molino di Molanoce oggi è nello stesso tempo, quindi, sia il risultato della cultura rurale di un territorio a grande vocazione agricola, come quello tra Todi e Massa Martana, ma anche la cellula iniziale di un percorso che come Museo della civiltà industriale tocca Narni e Terni.

C.B.
Tratto da “Il Messaggero” di giovedì 2 gennaio 2003 pag. 38
 


Alla ricerca dei molini non tutti perduti

Somigliavano a clessidre le antiche macine romane, formate da due elementi sovrapposti, mossi dall’uomo o dagli animali. Clessidre chiamate a frantumare i giorni, le ore, i grani del tempo. A volte si utilizzava la forza degli animali resa schiava, altre quella dell’uomo, magari schiavo di altri uomini, schiavi tutti comunque della necessità di produrre e di mangiare. Quelli più antichi però erano arabi, precedenti addirittura ai molini fissi dei romani e venivano sospinti dalla forza dell’acqua dei canali artificiali, o collocati lungo le sponde dei fiumi o a cavallo dei torrenti e spesso con le pale che giravano colpite dall’energia del vento.

I molini sono giunti sino a noi, nelle loro antiche tecnologie, quasi identici. Poi sono arrivati i molini elettrici a cilindri, e quelle tecniche, legate a nozioni e concezioni idrauliche e molitorie raffinatissime, rischiavano di scomparire del tutto. Basti pensare che già i romani utilizzavano farina doppio zero e che nel Seicento esisteva un macchinario (la stamigna, o, detto alla toscana, il buratto) che con movimento meccanico continuo divideva automaticamente il fior di farina, dalla farina detta “0” e dalla semola.

In Umbria non sono mancati alcuni esempi di molini a vento, come quei due perduti nei boschi tra Calvi e Narni, o quelli che utilizzano l’intera potenza dell’acqua dei fiumi, con pale orizzontali piazzate al centro della corrente. Ne esiste tuttora uno in funzione sul Chiascio, sotto Torgiano ed è forse l’unico che produce e vende la vera farina integrale, dal momento che questa può essere prodotta solo da macine in pietra, cioè dal cosiddetto “molino a palmenti”.

Nella maggior parte dei casi in Umbria si è trattato però di mulini con “l’accorda”, ovvero dotati di un bacino artificiale a monte dell’edificio; vasca dove l’acqua veniva raccolta, imbrigliata e fatta esplodere, a volontà del mugnaio, con tutta la forza del suo dislivello, contro il cosiddetto “ritrecine”, ovvero, addosso ad una sorta di grande turbina in legno, alta più di due metri, i cui diciotto cucchiaioni sospingevano la macina dal peso di 4/5 quintali.

Questa a sua volta, era gravata anche dall’attrito del grano. In pratica si sviluppava una potenza equivalente a circa 2 Kilowatt/ora, dal momento che per produrre farina la macina superiore (la girante), doveva essere trascinata sopra a quella inferiore (la dormiente) ad una velocità di circa 105 giri al minuto. Purtroppo di questi molini con “l’accorda”, con il “ritrecine” che gira velocemente sopra la “ralla”, ne esistono ormai pochissimi ed il lessico, legato alla loro tecnologia, era già noto agli autori latini, e sino a cinquanta anni fa veniva utilizzato in tutta l’Italia centrale.

di Remo Rossi
da “Il Messaggero” di giovedì 2 gennaio 2003 pag. 38

Quelle antiche macine

I molini ad acqua o a vento esistenti sono non funzionanti, ad eccezione di quello di Molanoce a Massa Martana e di uno tuttora in funzione in Valtopina. Di quelli in disuso, si può fare però un breve elenco, in quanto ognuno ha una caratteristica interessante.

Il più ben mantenuto è in una piccola valle all’interno della proprietà Corsini, sotto il castello di Sismano:”Occhio di Venere”, così lo chiamano i pochissimi turisti che riescono a vederlo. Ed hanno ragione, perché l’acqua dell’Arnata, il torrente che ne alimenterebbe la potenza solo se qualcuno volesse rimetterlo in funzione, trasparentissima da lontano, nella “accorda” dalla forma triangolare, sembra un occhio socchiuso. Poco lontano, in vista della Consolazione, a Todi, c’è quello detto di San Sisto. E’ un molino antichissimo, annesso un tempo ad un convento di suore; lì tutto è rimasto come allora, compresa la casa padronale che varrebbe la pena di lasciarla intatta anche nelle sue suppellettili. Il molino di Pontuglia, in Valnerina, potrebbe essere ripristinato con poco: infatti l’attuale proprietario dimostra passione per ricostruirne la duplice funzione che aveva, quella di essere molino da grano e frantoio di olive. Il Molino del comune di Bevagna, tuttora in funzione, diviene per alcune sere luogo d’incontro. Ma tanti sono i molini sepolti e spogliati dei loro strumenti, scollegati dal loro naturale elemento, l’acqua. Ripristinarli potrebbe essere una bella sfida per enti, istituzioni e privati.

Un esempio? Il molino di proprietà di Silvestri Tamiride, che potrebbe con pochissimo tornare a macinare farina integrale, solo che il figlio (dice Tamiride) lo volesse. E’ collocato alla confluenza del Timia con il Clitunno, in un punto dove l’edificio del molino, con la cinquecentesca chiesa, era il centro del motore del gruppo di antiche case, Torri di Montefalco. Altrettanto interessante è il molino del Comune di Bevagna, che utilizza per caduta l’acqua del Clitunno. E’ gestito da altri due Silvestri, cugini di Tamiride, i quali hanno individuato nella produzione di farine biologiche per mangimi animali il modo di farlo seguitare a funzionare, rendendolo produttivo per loro e per il comune che ne è il proprietario. Anche il molino di Torgiano, che utilizza la corrente del Chiascio per produrre energia elettrica per il proprio autoconsumo, è gestito da altri Silvestri, tutti cugini provenienti da una antica stirpe di mugnai, e produce, con le macine a palmenti farine biologiche, mentre, con il moderno molino a cilindri, farine di tutti i generi sinora conosciuti.

Vi è un altro molino, infine, da ricordare. Quello per il quale Silvano Silvani, artista di Ferentillo, ha speso un patrimonio in danaro, in conoscenza e sapere tecnico legato all’antico mondo contadino. E’ divenuto un museo visitabile, con la presenza di tremila attrezzi tra grandi e piccoli, risultando un percorso che si richiama alla cultura dell’olio e dell’olivo, quanto cioè di più tipico e tradizionale siamo in grado d’offrire in questa nostra regione.

La stessa identica operazione l’hanno fatto a Massa Martana, nel campo delle farine derivate dal grano e dal farro, Remo Rossi ed Orietta Batali, coadiuvati dai soci dell’Associazione Gastronomica Umbra e dal Gal Media Valle del Tevere: ricostruire, cioè, un molino funzionante, con due macinazioni, una del grano ed una del farro, così come era nel lontano 1600, utilizzando solo strutture e strumenti dell’epoca.

di Claudio Bianciardi
da “Il Messaggero” di giovedì 2 gennaio 2003 pag. 38

Gaglietole, rinasce il Molino del torrone
Piano di recupero per l’antico opificio lungo il torrente Puglia

COLLAZZONE – A Gaglietole, frazione di Collazzone, lungo il torrente Puglia si trova il “Molino del Torrone”. L’antico opificio è composto dalla torre, da cui prende il nome, dall’originario mulino a due piani e la stanza interrata delle ruote. La torre si sviluppa su tre livelli ed aveva funzione di difesa e avvistamento. Le caratteristiche ed i materiali utilizzati nella sua costruzione sono del tutto simili ad analoghe strutture databili attorno al XII-XIII secolo. Il molino era formato dai locali interrati delle pale, un piano terra destinato all’opificio ed altri servizi (forno, lavatoi, e stalletti) ed un piano rialzati accessibile dal cortile tramite una scala. Qui c’era la cucina con un grande camino e tre stanze da letto. Il piano di recupero e di restauro dell’antico edificio rurale nasce dall’intento di valorizzazione del patrimonio ambientale e storico culturale promosso dall’amministrazione comunale di Collazzone. Il progetto prevede, per prima cosa, la messa in sicurezza delle parti pericolanti, una serie di indagini per verificare con maggiore attenzione la stabilità antisismica delle strutture, scavi di tipo “archeologico” per il recupero dei materiali e dei meccanismi utili allo studio ed alla ricostruzione del “sistema molino del Torrone”. Solo per l’acquisto e la messa in sicurezza della struttura è prevista una spesa di circa 252.000 euro di cui 85.000 per l’acquisizione dell’immobile.
Già in epoca romana l’acqua cominciò ad essere utilizzata come fonte di energia. Il primo rudimentale molino ad acqua orizzontale risale al I secolo a.C. ed era costituito da una ruota motrice a pale o cucchiai ed un albero verticale che trasmetteva direttamente il moto alla macina. L’impianto del mulino di Gaglietole era certamente del tipo a ruota orizzontale: questa tipologia utilizza normalmente una portata d’acqua limitata ed è diffusa soprattutto lungo i torrenti ed i rii minori. Le ruote orizzontali comportano un basso costo d’impianto e di manutenzione e sorgono su corsi torrentizi caratterizzati da piccole portate e notevoli cadute. Queste ruote forniscono uno scarso rendimento, oscillante tra il 30-40%, poiché molta energia viene dispersa a causa dell’attrito con l’acqua. Le ruote normalmente sono situate all’interno del molino in un vano seminterrato. Il locale presenta due luci o aperture contrapposte, in diretta comunicazione con l’esterno. La prima per l’entrata dell’acqua, la seconda per la fuoriuscita . La tecnologia del molino del Torrone è del tutto compatibile con queste caratteristiche, ma solo dopo aver ripulito il vano interrato e tutte le componenti ed i materiali salvati dall’incuria e dai saccheggi potremo comprendere le specifiche caratteristiche tecniche dell’opificio e tentare di ricostruire le parti mancanti o deperite.

Da “Corriere dell’Umbria” domenica 30 agosto 2003