Luoghi dell’Infinito
 

Nel mettersi in cammino c’è l’essenza dell’uomo: da Odisseo ai viandanti medievali fino a Chatwin

testo di Franco Cardini

Il viaggio, la ricerca del centro, il ritorno alla patria dimenticata o perduta, la caccia al tesoro e al segreto: l’ascesa del monte, la discesa nel pozzo o nella caverna, il passaggio del fiume o del mare. Sono alcuni fra i “grandi archetipi“: miti che si ritrovano, con infinite varianti, nelle letterature, nelle religioni, nelle leggende di tutti i tempi e di tutti i popoli.

E tutti richiamano, invariabilmente, a un atto fondamentale: il camminare, il muoversi, il misurare e varcare lo spazio.

Se è vero che l’umanità si divide anzitutto in nomadi e sedentari (e i primi sono regolarmente vittime dei secondi: i pastori Abele e Remo, uccisi dai contadini Caino e Romolo…), è parimenti vero che i sedentari non possono essere tali completamente e perfettamente. Il movimento, il viaggio, accomuna tutti gli uomini: come il pensiero e la parola, esso è segno d’umanità. Gli animali si muovono, camminano, migrano: ma solo l’essere umano viaggia.

Nomadi e sedentari s’incrociano, si confrontano, magari si combattono.

Odisseo, l’eroe che ha molto sofferto e che mai s’è dimenticato della patria lontana, ma anche l’infaticabile tessitore d’inganni, sceglie non a caso il nome di “Nessuno” per presentarsi a Polfemo.

Odisseo è l’eroe della sua isola di rocce e d’olivi; Polifemo, figlio di Poseidone e di una Nereide, è invece “colui che parla molte lingue“, è l’abitante di quel “continente liquido” che è il Mediterraneo, nel quale le identità s’incontrano e s’incrociano. La lotta tra Odisseo e Polifemo somiglia a quella tra chi è profondamente radicato nel suo territorio – e, obbligato a partire, vuole tornarvi e pretende di avere per sempre il diritto su una terra che è stata sua, anche molto tempo dopo l’abbandono – e chi invece della sua isola e della sua grotta fa centro per una vita che richiede per forza di cose il movimento, lo spostamento. Odisseo è re di una terra di caprai, di guardiani di porci, di pescatori, ma è radicalmente pur sempre un contadino: è dal tronco di un grande olivo che ha ricavato il suo talamo nuziale. Irremissibile, arcaico, primordiale è il conflitto tra nomadi e sedentari, nel quale i primi appaiono sempre come i trasgressori, i provocatori, coloro che minacciano, ma gli assassini alla fine sono sempre e invariabilmente i secondi. Polifemo sta a Odisseo come Abele sta a Caino, come Remo sta a Romolo.

Eppure anche la razza di Caino, di Odisseo e di Romolo deve muoversi. Vivere non è necessario: camminare è indispensabile.
Il mondo cristiano ha espresso nella concezione dell’hommo viator, del viaggiatore, il simbolo della ricerca spirituale che – per il fatto di essere intima – nondimeno si esprime talvolta anche nei termini d’un reale ed effettivo spostamento da un luogo all’altro. Il termine “pellegrino“, poi, deriva dal verbo latinoperagere che è quanto mai ricco di significati: da quello di “muoversi con inquietudine, senza tregua” a quello di “condurre a termine” (e quindi “perfezionare“, ma anche “morire“). Il peregrinus non è semplicemente l’advena o l’hospes, lo “straniero“.

La parola peregrinus esprime l’estraneità e al tempo stesso l’estraniamento e lo spaesamento. Il pellegrino è tale in quanto straniero nellla terra nella quale giunge; ma al tempo stesso l’espressione che lo qualifica è ambigua al punto da poter significare il contrario: in realtà egli potrebbe essere straniero nella sua terra d’origine, e la sua vera patria potrebbe essere invece la sua meta. Il cristiano è cittadino del cielo, la sua vita è un pellegrinaggio perché egli parte dall’esilio e desidera tornare in patria. Si può certo vagare senza meta (quella che nel romanzo cavallersco medievale si chiamava l’aventure), ma soprattutto si viaggia per arrivare da qualche parte, per conseguire un fine (nel Medioevo si diceva la quète).

La meta è fondamentale. I Magi del Vangelo di Matteoseguono instancabili e fiduciosi la stella: hanno gli occhi fissi sull’astro di fuoco e si può dire che il resto non li riguarda. Il segno celeste è visibile solo di notte. Come i beduini del deserto, i Magi durante l’ardente e afoso giorno riposano: per quanto non sia scontato che il loro viaggio sia segnato dalle condizioni dell’afa e dell’estate.

Essi non si guardano attorno: corrono dritti alla meta. Eppure il loro cammino, che resta esemplare e paradigmatico, è per molti versi un’eccezione. In realtà, il viaggio, quindi la strada – dritta via consolare o pista appena segnata, autostrada vertiginosa o sentiero sassoso – è importante non meno della meta: anzi, in un certo senso, esso stesso è la meta, ne fa intrinsecamente parte. Come gli adepti della postmoderna “filosofia del viaggiatore“, i pellegrini sanno bene che il punto d’arrivo riveste per loro tanti più significati quanto più è stato atteso, meditato, desiderano durante il viaggio.

I panorami visti, le difficoltà affrontate, il freddo, il caldo, il sudore, la sete, la fame, la paura, il desiderio di riposo, la stanchezza, l’attesa, lo stupore, l’ammirazione, la commozione, il pianto e la preghiera: questo è il viaggio; questo è, soprattutto, il pellegrinaggio.

La modernità ci fascia e c’insidia: essa ci costringe a percorrere la strada in fretta e furia, ci lega all’auto, al treno, all’aereo. Eppure proprio in questi tumultuosi tempi sta rinascendo – da Santiago a Roma e, magari con difficoltà maggiori, perfino versoGerusalemme – la dimension del viaggio a piedi o anche in bicicletta e perfino a cavallo. La strada va sofferta, va centellinata, va vissuta: perchè il viaggio e soprattutto il pellegrinaggio sono ascesi, cioè fatica e conquista. Arrivare al Santo Sepolcro di Gerusalemme, in Piazza San Pietro a Roma o al Portale della Gloria di Santiago dopo essere scesi dal pullman o dall’aereo può essere commovente ed esaltante: ma arrivarci passo dopo passo, impolverati dal viaggio ma con l’anima liberata dai rimorsi e rinnovata dall’acqua delle lacrime di penitenza e dal silenzio interiore è tutt’altra cosa.
E’ quanto ci ha splendidamente insegnato, in pieno Seicento, il puritano inglese Jon Bunyan, predicatore e perseguitato, nel suo libro The Pilgrim’s Progress, commovente narrazione allegorica del viaggio dell’anima da questo mondo all’Eternità: quello che il regista spagnolo Luis Bunuel ha trascritto in termini ardui e al limite della blasfemia, eppure tanto penetranti e toccanti, nel film del 1969La Via Lattea.

Quando si pensa al pellegrinaggio cristiano, l’immaginazione ci trasporta invariabilmente “in pieno Medioevo“. Tralasciamo il problema di quanto quel Medioevo corrisponda alla realtà storica: noi lo immaginiamo con le sequenze de Il Settimo Sigillo (1957) diIngmar Bergman o con quelle de L’Armata Brancaleone (1966) diMario Monicelli, che sono in modo diverso tra loro due stereotipi magari geniali, che però solo chi davvero è esperto di storia del pellegrinaggio puà cogliere nel loro nucleo di verità, in quanto gli aspetti ricostruttivi di essa sono profondamente inesatti.

In realtà, dalla Riforma protestante al Settecento illuminista la dimensione del pellegrinaggio ha subito una forte, progressiva eclisse: solo colRomanticismo è tornata in auge, proprio quando la realtà del viaggio – fino ad allora pensato come faticosa necessità per alcuni e come costoso privilegio per altri (gli aristocratici colti e avventurosi del Grand Tour) – si è affermata fino a dar luogo a un genere letterario che, da Pierre Loti a Herman Melville, daJoseph Conrad a Karen Blixen fino a Bruce Chatwin, ha recuperato aspetti salienti dell’antico “genere odoeporico“, caricandosi però di valori esistenziali, filosofici e antropologici. 

Come ha spiegato bene Chatwin ne Le vie dei canti, riferendosi all’ancestrale cultura australiana ma cogliendone un intimo valore universale, l’essere umano “crea” la sua strada percorrendola. Bastamettere a confronto, separatamente, i racconti di due persone che abbiamo percorso sul serio e per intero il Cammino di Santiago dal passo di Roncisvalle fino a Compostela: non si troveranno mai due racconti uguali, anzi spesso sarà difficile addirittura riconoscere un identico percorso in descrizioni tanto differenti.

La strada cambia anzitutto secondo chi la percorre: maschio o femmina, giovane o vecchio, sano o ammalato, miope o presbite, ipocondriaco o iracondo, loquace o taciturno, introspettivo o espansivo. Cambia inoltre a seconda che ci si muova di giorno o di notte, partendo di buon’ora o viaggiando fino all’ultimo filo di luce, e ancora a seconda della stagione e del clima.

Qualche sciocco sostiene che la piggia può rovinare un tratto di cammino: ma chi non ha mai visto un temporale sull’Appennino o sui Pirenei si è perso una fetta di bella esistenza.

E, soprattutto, diffidate di chi esprime la massima delle stupidaggini perverse, quella che consiste nell’affermare: A Gerusalemme (o a Roma, a Santiago, a Lourdes, a Fatima, a Czesochowa, a Pompei, perfino alla Verna, a Varallo o al Divino Amore: o magari anche a Delfi o a Lhasa…) ci sono già stato“. 

Blasfema idiozia: non si è mai già stati in luoghi come quelli, centro del mondo e dell’Essere.

Ogni nuovo viaggio è un’esperienza che ci fa “diversi“, ci fa “altri“. I cristiani dei primi secoli a Gerusalemme ci andavano una volta sola nella vita, per non tornare più indietro: per concludervi l’esistenza. I cristiani di oggi dovrebbero sforzarsi di tornarci di continuo, iterando, rinnovando e approfondendo l’esperienza:come si addice a questi nostri tempi purtroppo tumultuosi, superficiali e dispersivi.

Per gente disabituata al silenzio e alla concentrazione, ripetere più volte il viaggio equivale a moltiplicare le occasioni di riacciuffare il tempo perduto e di riconquistare sensazioni tralasciate o dimenticate.

Infine, chi guarda al viaggio-pellegrinaggio con occhi e senso storici tenga bene a mente che non esiste una sola via, un’unica strada che conduce alla meta.
Come si va in pellegrinaggio per infinite ragioni, così sono molti i percorsi che si possono seguire.
Nel mondo medievale, ad esempio i tracciati si sviluppavano secondo veri e propri “fasci viari” e ogni itinerario aveva le sue deviazioni,i suoi diverticoli, le sue mere minori e alternative.

Non si va in pellegrinaggioSi è pellegrini: lo si è sempre e comunque.

La vita è un pellegrinaggio. I viaggi e i pellegrinaggi che facciamo nell’arco della nostra esistenza altro non sono che metafore della vita. Mettersi in viaggio significa mettersi in gioco.

Si è pellegrini anche se chiusi in una stanza, se immobilizzati in poche spanne di spazio. Viaggio è libertà.