Il cammino della Liberazione di Achille Rossi

«Sono convinto che non ci sarebbe francescanesimo, senza quel primo drammatico viaggio del giovane Francesco da Assisi a Gubbio, all’indomani della sua spoliazione».
Padre Luigi Marioli, studioso innamorato di san Francesco, ci fa subito intendere che parlare del sentiero della pace La Verna-Assisi è tutt’altro che un’opera di promozione turistica. «Io ritengo che questo viaggio sia molto importante perché è la prima sperimentazione di quella che Francesco stesso chiamava la sua “altissima ispirazione”: la sua decisa ricerca di una vita evangelica. “Dura intenzione” la qualifica Dante nel Paradiso. Ormai in Assisi l’opinione pubblica si era completamente rovesciata nei confronti di questo ragazzo che prima era chiamato “il principe delle feste”. Diventato incomprensibile non soltanto ai familiari e ai parenti ma anche agli amici, senza aver fondato un ordine e senza neppure avere l’intenzione di fondarne uno, Francesco segue il filo della sua ispirazione, abbandona la sua città e comincia a fare i conti con la storia».

IL DURO IMPATTO CON LA REALTÀ
Cosa intende dire? «A Caprignone, come racconta la Vita prima di Tommaso da Celano, Francesco viene assalito dai briganti, che lo malmenano e lo gettano in un fossato pieno di neve. Nella fase di transizione tra l’epoca feudale e il periodo comunale quelli che noi chiamiamo briganti erano, in realtà, persone ex lege, fuori dalla legalità, che non appartenevano né ai majores, né ai minores , né ai mediocres e che si guadagnavano la vita taglieggiando i viandanti. Questo incontro così brutale è stato per Francesco il primo duro impatto con la realtà, dove è stato messo alla prova il suo impegno evangelico». Prima di essere malmenato Francesco annuncia ai briganti di essere l’araldo del Gran Re. Cosa voleva dire? «Questa è una delle sue frasi più provocatorie. Egli intende suggerire ai suoi interlocutori che Dio è il “Grande Elemosiniere”, il dispensatore di ogni dono, e quindi tutto è grazia. Equivaleva a dire: siamo tutti poverelli, siamo tutti mendicanti. Era uno straordinario annuncio evangelico che gli interlocutori non hanno afferrato».

INCOMPRENSIONI
L’incomprensione, però, Francesco la incontra anche nei confronti di persone che erano all’interno del sistema ecclesiastico, come dimostra la sua sosta all’abbazia benedettina di Vallingegno, dove viene assunto a fare lo sguattero in cucina. «Anche questa tappa è importante, perché denuncia la novità del francescanesimo nei confronti di uno degli ordini più consolidati. Nella potentissima abbazia di S.Verecondo a Vallingegno Francesco viene ospitato come un pellegrino qualunque, non come uno che avesse fatto una scelta religiosa. Francesco viaggiava con la tonaca che ancora si conserva nella cappella delle reliquie della basilica inferiore di Assisi ed era difficile riconoscere in quella divisa una persona consacrata a Dio. La veste avrebbe potuto accomunarlo ai villici o agli eremiti, ma ciò che la rendeva deforme era proprio la corda che Francesco aveva adottato al posto della cintura. Già nel taglio della divisa, che aveva la forma di una croce, si esprime la scelta spericolata di Francesco non tanto per la povertà, quanto per la minorità, che è qualcosa di diverso. Il francescanesimo non è un movimento pauperistico, ma minoritico: sint fratres minores».

VITA COME SERVIZIO
Cosa significa minorità?
«È ben spiegato nel Vangelo di Luca: vita come servizio. Ma questo non si può realizzare senza la povertà. Il servizio va da povero a povero; il resto è filantropia oppure paternalismo. Insomma, la povertà è una scelta obbligata per esercitare il senso della minorità».
Padre Luigi ci fa riflettere su un particolare curioso: «San Francesco aveva una netta avversione per la cavalcatura, che costituiva un segno di nobiltà, di agiatezza. Era l’implicita ammissione di appartenere a una classe superiore. Infatti, quando bacia il lebbroso, egli scende da cavallo: è un potente appiedato, non più un cavaliere, l’uomo della spada». L’incomprensione iniziale tra Francesco e i benedettini ha avuto però un lieto fine. «Se in prima battuta c’è stata incomprensione, via via che l’ordine benedettino ha preso consapevolezza del carisma francescano, non solo l’ha riconosciuto, ma è stato uno dei più generosi benefattori di san Francesco. Uno dei più grandi capitoli convocati da Francesco fu completamente stipendiato da questo monastero che in un primo tempo l’aveva rifiutato». Lei sostiene che l’episodio di Vallingegno ha un valore fortemente simbolico. Potrebbe spiegarci cosa intende? «Questo, come tanti avvenimenti della sua vita, rivela che Francesco, “uomo semplice e idiota” (è la sua autodefinizione), sapeva parlare a tutti, grandi e piccoli: papi, cardinali, folle di studenti universitari, come nel 1222 a Bologna. Anche l’episodio, raccontato nei Fioretti, del lupo di Gubbio non fa altro che presentare in forma drammatica la sua stupenda capacità dialogica. Francesco ha ascoltato tutti, ha parlato con tutti, e in tutti i linguaggi. Pensiamo alla sua missione in Terrasanta: unico cristiano non crociato, stretto tra due integrismi. Eppure egli non ha mai impiegato la sua forza profetica per distruggere». Padre Luigi getta uno sguardo sul magnifico chiostro trecentesco accarezzato dalla luce di questo limpido mattino di fine estate e aggiunge: «Ha fatto come i restauratori: quando un muro è spanciato, tolgono la pietra storta e la rimettono diritta. È il lavoro più difficile, ma anche quello più duraturo».

A GUBBIO TRA I LEBBROSI
Questo primo viaggio di Francesco, esule dalla sua città, si conclude a Gubbio, dove il santo si ferma all’ospedale dei lebbrosi. Perché è così importante il soggiorno di Francesco nel lebbrosario? «Perché l’ospedale dei lebbrosi è la casa della minorità. Sono loro gli ultimi degli ultimi. Secondo la documentazione dello storico Fortini, al tempo di Francesco attorno ad Assisi c’era una cintura di disperazione, costituita dai numerosi lebbrosari per uomini e per donne che punteggiavano la campagna».
«A leggere le costituzioni che regolavano la vita dei lebbrosi, si comprende ancora meglio la radicalità del gesto di Francesco che tocca, anzi bacia, il lebbroso. Non è un gesto di compassione, è un gesto di compromissione. È quasi un diventare infetto, segregato. I lebbrosi venivano accompagnati al lazzaretto “more defunctorum”, alla maniera dei defunti. Scegliendo la via del lebbrosario Francesco chiarisce la sua vocazione: condividere la vita degli ultimi e riconoscere il valore inalienabile di ogni persona. Il rispetto per ogni creatura traspare anche dalla sua maniera così espressiva di chiamare fratelli e sorelle non soltanto gli esseri umani, ma persino le cose».
Leggendo il Testamento sembra che il soggiorno tra i lebbrosi sia stato per Francesco una esperienza fondativa. «Effettivamente nel Testamento non si parla del crocifisso di San Damiano, ma dell’incontro con i lebbrosi: “essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia”. Come dire, Dio mi condusse là dove non sarei mai arrivato con le mie gambe. Francesco ha immesso nella storia il dialogo, la compassione, il rispetto incredibile per la dignità dell’uomo, perché ha saputo riconoscere nel lebbroso i segni della gloria del Figlio di Dio».

UNA TENACE DIFESA DELLA POVERTÀ
Come mai Francesco è stato così tenace nel difendere la povertà e nel volere che i suoi seguaci rimanessero “minori”? «Perché la ricchezza è la massima fascinazione dell’uomo; dà infatti il senso infantile dell’onnipotenza: con i soldi posso fare tutto. A questo punto Dio diventa inutile e Francesco ne è consapevole». Se dovesse condensare in poche battute l’essenza del messaggio francescano, che cosa direbbe? «Parlerei di questo rapporto fraterno che dovrebbe spingere ogni uomo al dialogo, alla pazienza stremata del dialogo. La parola frate, fratello, entra nel nostro dizionario con san Francesco. Per i suoi primi compagni la frateria non è la comunità, ma la famiglia. “Quando i frati s’incontreranno per strada, si dimostrino domestici l’uno all’altro”, suggerisce Francesco, figli cioè della stessa casa. Non perché abiti in un convento tu sei frate, ma quando, nel tuo peregrinare sulle strade del mondo, t’incontri con un altro fratello». È stata recepita questa lezione di Francesco? «Sono convinto che senza il francescanesimo la figura di Francesco non si sarebbe sedimentata né in seno alla cattolicità né all’interno della stessa cultura umana. Le faccio un esempio: padre Massimiliano Kolbe che in un bunker nazista nel 1942 canta gli inni mariani è una perfetta incarnazione dello spirito di Francesco che, cieco e stremato dalla malattia, inventa il Cantico delle creature. Quello che mi colpisce in questa storia secolare, che in certi momenti diventa palude, è la capacità di ripresa, che nasce sempre dai luoghi del silenzio, dagli eremi. Aveva ragione san Bernardo: “ Non si può essere canali se prima non si è cisterne”».

Tratto dal mensile ”L’altrapagina” n. 9 settembre 2003