Un eremo rupestre preziosamente affrescato nella montagna di Foligno.

Il Sasso di Pale domina, con la sua caratteristica mole piramidale, la vasta piana di Foligno. A meridione nettamente tagliato da una ripida parete di calcare – spessi strati di Calcare Massiccio, inclinati e spezzati dalle spinte tettoniche che sollevarono l’Appennino, ne delineano l’architettura – che incombe sulla valle del Menotre, a monte della sua confluenza con il Topino. Il Menotre, forse per antichi sbarramenti, ha qui deposto una spessa piastra di travertino – vi è anche una piccola grotta da visitare, ricca di concrezioni – sulla quale si è arroccato il borgo di Pale, ancora cinto di mura. Il borgo controlla la sottostante ampia valle, colma di uliveti che risalgono fitti gli adiacenti versanti montani, lungo la quale, per l’antichissima via Plestina, si saliva dalla Flaminia agli altopiani di Colfiorito.

Annidato in alto, tra le balze rocciose del monte, in una concavità della parete, attira lo sguardo un piccolo gruppo di edifici abbarbicati allo scoglio, con il quale sembra fondersi. E’ l’Eremo di S. Maria Giacobbe. Vi si arriva a piedi dal paese, lungo un erto sentiero, a tratti scalinato, che sale tra i lecci e i ghiaioni, profumati dai cespugli cinerini della santoreggia.

Ancora oggi è meta di processioni e pellegrinaggi dei popoli vicini, particolarmente il 25 maggio, festa della patrona, e il giorno dell’Ascensione. Salire a piedi scalzi, per l’aspro percorso, era uno dei modi comuni di purificarsi prima dell’accesso nello spazio sacro.
L’eremo è un santuario di frontiera, posto cioè al limite dei territori parrocchiali di diverse comunità della montagna, che vi accorrevano nei momenti di festa. Funzionava quindi come centro di incontro, scambio e aggregazione non solo religiosa, ma anche sociale e culturale. La ricorrenza festiva era utile per rinsaldare i legami del gruppo, derimere e sciogliere i contrasti eventualmente creatisi, e per i giovani occasione per fare nuove conoscenze.
Ma il santuario possedeva anche prerogative terapeutiche. Vi si ricorreva, infatti, per invocare la protezione per sé e i propri congiunti, specialmente se lontani – come frequentemente e intensamente avvenne negli ultimi due conflitti mondiali – ma anche per le proprietà salutari e apotropaiche sia dell’acqua raccolta nella cisterna dell’eremo, che degli intonaci che venivano grattati e portati via (allo scopo sono stati asportate anche piccole parti degli affreschi). Nel locale annesso alla chiesa si raccolgono ancora numerosi ex voto, per grazia ricevuta, anche se i più antichi – in genere tavolette fatte dipingere dai devoti per ricordare il fatto miracoloso – sono stati o asportati o traslati presso la chiesa parrocchiale. 

L’Eremo
E’ costituito da edifici di epoche diverse e varie volte riadattati, ricavati al di sotto di una ampia rientranza della parete rocciosa, che funge in parte da volta. La costruzione più antica è la chiesa – alla quale si accede per un portale in pietra asimmetrico rispetto alla facciata – costituita da un vano rettangolare di metri nove per tre e mezzo. Ad essa si addossano, a livelli diversi, due edifici all’interno dei quali sono ricavate le piccole stanze dove albergavano gli eremiti, che in ogni epoca, hanno custodito il santuario. Entrando nella piccola chiesa si resta subito colpiti dai molteplici affreschi che ricoprono interamente le pareti e la volta. Quest’ultima è alquanto irregolare, in parte a sesto acuto e in parte a tutto sesto, raccordandosi sul fondo con il masso calcareo che funge quasi da abside.
Gli affreschi, di epoca e mano diversa, a volte ritoccati in maniera inesperta, sono pregevoli per la storia della pittura umbra. Sulla volta troneggia un Cristo benedicente incluso in una mandorla, di probabile scuola senese, e un Cristo Benedicente tra angeli. Nella parete di destra un grande affresco illustra la Natività (fine XIV secolo); si affiancano le figure di S. Antonio e Cristo risorto, dipinte nel 1547. Sulla parete di sinistra si sviluppa il tema della morte di Maria, forse di scuola giottesca. In questa parete sono numerose le rappresentazioni della Madonna col Bambino, di cui una molto bella, e forse tra le più antiche, di tipo bizantino. Incombe un grande Cristo tunicato (fine secolo XIV) che ripete l’iconografia del Santo Volto di Lucca; esso immerge i piedi in due calici che richiamano il Santo Graal, curiosa connessione con le legende del cosiddetto “ciclo bretone”.
Sulla controfacciata emerge un grande S. Cristoforo, parzialmente ricoperto da figure di santi (XVI secolo). Sulla parete dell’altare sono rappresentati in successione da sinistra S. Carlo Borromeo, S. Maria Maddalena – riconoscibile per i lunghi capelli sciolti – S. Antonio da Padova e S. Messalina, martire di Foligno (affreschi del XVII secolo).
Sul fondo dell’altare, affrescati sulla roccia – probabilmente sono questi i più antichi – troviamo le figure di S. Maria Giacobbe – titolare del santuario caratteristicamente rappresentata con il vasetto degli aromi in mano – S. Luca e una Madonna con Bambino in una cortina di angeli (XII – XIII secolo).

Sono oggi presenti nella parrocchiale di Pale due opere d’arte del santuario: una Madonna lignea – che l’eremita tradizionalmente portava a spalla nelle case ove vi fosse bisogno per impetrare la grazia – e una tela del XVI secolo con raffigurata S. Maria Giacobbe. Del santuario non si ha documentazione antecedente al 1296, quando risulta già dotato ampiamente di beni. Se ne deduce una fondazione anteriore risalente a circa la metà del XIII secolo. Il mito di fondazione vuole che in una grotta del Sasso di Pale si sia rifugiata a fare penitenza S. Maria Giacobbe, da cui poi la erezione del santuario. Maria de Iacoba è la madre di Giacomo che dopo aver assistito alla crocifissione, insieme a Maria di Magdala – la prostituta Maddalena, che per l’appunto viene raffigurata con i capelli sciolti sulle spalle – e a Salome, la mattina del sabato riceveranno l’annuncio della resurrezione presso il sepolcro dove si erano recate con il vaso degli aromi. Il popolo ha sempre fatto una grande confusione tra le tre Marie. In realtà è la Maddalena che visse per lunghi anni solitaria in una caverna. Il culto di S. Maria Giacobbe si diffuse nel secolo XIII, forse portato da monaci orientali che percorrevano le strade dell’Italia Centrale. Esso per la prima volta è attestato a Veroli, nel Lazio, dove secondo la leggenda di fondazione, su un anfratto della montagna furono trovati, in un urna, i resti mortali della santa.
A Pale è ancora vivo il ricordo di un tradizionale pellegrinaggio “sostitutivo”, dove un committente, a pagamento, per ottenere il beneficio, inviava in usa vece al santuario sette ragazze guidate da una donna sposata.

 


Itinerario

Pale è un toponimo molto interessante, forse prelatino, da “pal”, altura, noto anche sulle Alpi. Ha il significato di rupe nuda che forma la cima di un monte – ben adatta al nostro monte – o di ripido versante prativo. Pale era una antica divinità italica della pastorizia, preposta alla fecondità e salute degli armenti. Veniva festeggiata il 21 aprile; durante le “Palilie” i pastori accendevano dei fuochi di paglia sui quali salivano insieme al bestiame come atto di purificazione. E’ significativo che proprio
sulla sommità del monte recentemente sono stati portati alla luce i resti di un santuario, probabilmente italico. E’ tutt’ora attiva nel borgo una cartiera, che sfrutta la ricchezza di acque, incanalate, del Menotre. Non è improbabile che tale attività sia stata iniziata addirittura in pieno medioevo, dai monaci della vicina abbazia di Sassovivo, di cui Pale rappresentava un possedimento. La parte più interessante dell’itinerario proposto è la risalita del ripido vallone che delimita il Sasso di Pale ad occidente, scavato lungo i calcari stratificati che si appoggiano all’anticlinale di Calcare massiccio, tra i quali spiccano per il loro colore rosso i calcari e le marne del Rosso Ammonitico. Una densa lecceta ammanta il fosso e i versanti adiacenti. Al riparo del fitto bosco vivono numerosi animali selvatici, tra i quali l’elusivo istrice, di cui non è difficile rinvenire gli aculei. Sulle rupi nidifica e volteggia frequentemente il falco. La cima del monte, foschia permettendo, permette di godere di un vasto panorama sui monti umbri fino al Subasio a nord e ai monti di Spoleto a sud.
Dall’alto si possono osservare gli estesi uliveti che in questa parte d’Appennino, grazie ad un clima particolarmente dolce, trovano un ambiente ideale e si insinuano frequentemente tra i boschi termofili di leccio e roverella.

Tratto da:
I Sentieri del Silenzio
Alla scoperta degli eremi rupestri e delle abbazie dell’Appennino marchigiano e umbro
Andrea Antinori
Società Editrice Ricerche