I Monaci di Betlemme all’Eremo di Montecorona (Umbertide)

LA CHIESA NEL DESERTO

I contemplativi sono il cuore della chiesa. Attraverso di loro il sangue dell’amore di Cristo può fluire in tutto l’organismo.

di Achille Rossi

Fratel Philippe e fratel Agapetòs, avvolti nel bianco saio camaldolese, ci ricevono con squisita cortesia nella foresteria dell’eremo di Monte Corona. Appartengono alla congregazione di Betlemme, una famiglia monastica di recente fondazione, che si è insediata nell’antica struttura per rivitalizzarla spiritualmente e materialmente.

«La nascita di quest’ordine religioso è abbastanza singolare – ci spiega fratel Philippe. Un gruppo di pellegrini francesi, venuti a Roma per la proclamazione del dogma dell’Assunta, riceve l’intuizione di fondare una nuova congregazione per rivivere l’atteggiamento contemplativo di Maria e anticipare la realtà del cielo». Comincia così per iniziativa di due donne, una cattolica e l’altra protestante, l’avventura delle monache di Betlemme. Il ramo maschile sorgerà 25 anni dopo. Attualmente la famiglia religiosa conta più di 500 membri sparsi nei monasteri dei diversi continenti.
Da quanto tempo siete arrivati a Monte Corona? «Siamo qui da 12 anni. Prima di noi l’eremo è stato abitato dalle suore, che sono rimaste per nove anni e hanno iniziato i lavori di restauro».
Come si svolge concretamente la vostra vita? «Noi ci ispiriamo alle fraternità di S. Bruno, il fondatore dei certosini, che si basano sulla vita in cella e la preghiera in segreto. Nel Vangelo Gesù invita i discepoli a pregare il Padre nel segreto. Così la nostra è una vita di silenzio, preghiera, adorazione, lavoro manuale, sempre in silenzio».
A Camaldoli esistono i reclusi, che rimangono sempre nelle proprie celle, e i monaci che fanno vita comune. Vige anche da voli lo stesso criterio? «Una parte dei fratelli lavora e mangia in cella per tutta la giornata; si sposta solo per la recita dell’ufficio e per la messa. L’altra parte della comunità vive in cella per metà del tempo, ma lavora nella grande casa, sempre in solitudine». 

Com’è articolata una giornata tipo dell’eremo?

«Dalle quattro, quando ci alziamo, fino alle 6.45 è un tempo dedicato alla preghiera in cella.Segue l’ ufficio di mattutino che viene recitato coralmente in cappella, poi un tempo di formazione e di studio. Alle 10.20 c’è la preghiera di terza in cella e il pranzo. Alle 11.45, dopo la recita di sesta, inizia il lavoro manuale che si protrae fino alle 15.45. L’ufficio dell’ora nona segna la fine del lavoro e l’inizio della cena.
Alle 17 di nuovo in chiesa per i vespri e la celebrazione eucaristica».
Quando si conclude la vostra giornata? « Alla fine della messa abbiamo una mezz’ora di silenzio, poi alle 19 torniamo in cella per un’ultima preghiera e la recita di compieta. La giornata si chiude attorno alle 20 di sera».
In che consiste il lavoro pomeridiano? «Lavoriamo la ceramica, che è una delle fonti di sostentamento della comunità, e dipingiamo le icone secondo la tradizione orientale. E’ un artigianato che nasce dalla preghiera e vuole evocare l’invisibile».
Nel monastero c’è una foresteria. Accogliete anche gli ospiti? «Riceviamo volentieri coloro che desiderano fare un periodo di silenzio. Abbiamo 7 celle per eventuali ospiti, che possono essere accompagnati spiritualmente da un fratello e partecipare alle preghiere comuni»-
Quando facciamo notare ai due monaci che per l’uomo comune la vita dell’eremo è molto dura, fratel Philippe ha un moto di sorpresa: «Per voi forse, non per noi». Ma cosa volete affermare con questo stile di vita e con un pratica così rigorosa del silenzio? «Nel Vangelo di Giovanni Gesù dice che il Padre cerca adoratori in spirito e verità. Noi riceviamo dal Signore la chiamata a vivere questa adorazione del Padre nel segreto e anticipiamo sulla terra la realtà del cielo. Il monachesimo è una profezia della realtà futura e prefigura il momento in cui “Dio sarà tutto in tutti”, come dice Paolo».


UNA FUGA DAL MONDO?

Gesù però ha vissuto tra la gente e non si è ritirato dal mondo tranne che nei momenti di preghiera.
La vostra vita non potrebbe essere considerata una fuga dal mondo?

«Gesù ha condotto 30 anni anni di esistenza silenziosa e tre anni di vita pubblica, durante la quale ha lasciato intuire l’importanza di questa relazione col padre. Si ritirava in silenzio sulla montagna, per manifestare che l’incontro col Padre era un’esperienza di fuoco che non si può spiegare. Lì era il nucleo della sua vita. Ma è anche il centro dell’esistenza di ogni cristiano. Dopo la sua resurrezione Gesù dice a Pietro:”Seguimi”. Egli va nel seno del Padre ed è in questa comunione d’amore che egli vuole attirare tutti gli uomini».
Perché voi monaci volete anticipare, in un certo senso, questo incontro? «E’ un atto d’amore. Ci sentiamo chiamati personalmente fin d’ora. No a tutta la chiesa è richiesta questa anticipazione ma solo ad alcuni. Comunque tutti i cristiani, poiché hanno ricevuto il battesimo, portano nel loro intimo questa presenza divina che vivifica tutte le dimensioni della vita e sono tenuti a coltivarla. Noi monaci vogliamo testimoniare che Dio basta per una persona umana, perché il suo amore può riempire tutta l’esistenza. Non è troppo duro, no. E’ duro solo quando manca l’amore. In fin dei conti, non facciamo niente di speciale: mangiamo, lavoriamo, dormiamo, viviamo la quotidianità di tutti, ma sotto lo sguardo di Dio».
Cosa vuole indicare alla società di oggi, la vostra vita silenziosa? «Il silenzio, appunto, che è il contrario dell’agitazione e del  caos contemporaneo – risponde Agapeòs. Noi cerchiamo l’incontro con Dio e con i fratelli, ma abbiamo bisogno per questo di condivisione e di silenzio, che è la condizione della verità di ogni incontro. Nel silenzio noi portiamo i problemi di tutta la chiesa e della gente di oggi che ha smarrito il significato della vita. L’esperienza monastica ricorda al mondo contemporaneo, particolarmente ai giovani, il senso della cose ultime».
Proprio per questo c’è bisogno di una chiesa che vada in mezzo ai giovani e che li raggiunga nel mondo! «E’ vero, ma anche di una chiesa del deserto che rammenti loro che l’uomo è fatto per il Mistero».
Come fate a coltivare rapporti interpersonali se vivete sempre in solitudine e in silenzio? «La domenica tutti gli uffici sono celebrati insieme; nel pomeriggio facciamo una passeggiata di tre ore durante la quale abbiamo scambi tra noi. La nostra regola prevede anche incontri comunitari. E poi non bisogna dimenticare che il silenzio avvicina le persone: è un’apertura radicale nei confronti degli altri».
Quali difficoltà incontrate nel vivere la vostra esperienza monastica? «Non certo quelle che la gente immagina: l’alzarsi presto, il silenzio, una certa sobrietà. Abbiamo le comodità normali La difficoltà più vera è quella di diventare discepoli di Gesù. Potremmo non farlo e questo dall’esterno non si vede». Per me – continua Philippe – lo scoglio vero è vivere l’amore di Gesù in una comunità in cui siamo così diversi, praticare la povertà come Gesù l’ha praticata… Rinunciare alle cose è facile; difficile è rinunciare a se stessi».

QUALI ECHI DAL MONDO?

Quali echi del mondo arrivano nella solitudine di Monte Corona?

«Tutti i problemi contemporanei ci toccano: droga, ingiusta distribuzione dei beni fra ricchi e poveri, manipolazione genetica. Nel mondo c’è una lotta contro l’amore e contro l’uomo di cui la gente non ha nemmeno coscienza. Eppure cresce anche un movimento che desidera una nuova umanità. Ho l’impressione che i giovani siano molto sensibili alla vita».

Una domanda impertinente: leggete mai i giornali?

«Siamo abbonati all’Osservatore Romano, ma sono convinto che per avvicinarsi all’uomo esista un’altra via. Vivendo in solitudine facciamo l’esperienza del nostro io, della nostra miseria e così impariamo cosa c’è nell’uomo guardando quel che si agita nel nostro cuore. Il monaco acquista una certa scienza dell’uomo non tramite le notizie del giornale, ma per la via dell’interiorità».

Come fate a testimoniare l’amore di Dio se vivete lontani dal mondo?

«La testimonianza dell’amore ha due versanti: uno visibile e uno invisibile e tutti e due fanno parte della chiesa. Gesù diffonde il suo Spirito nei nostri cuori in maniera invisibile ed è a questo livello che noi ci collochiamo. Anche nel corpo ci sono organi che non si vedono come il cuore e che pure hanno una funzione essenziale. I contemplativi sono il cuore della chiesa; attraverso di loro il sangue dell’amore di Cristo può fluire in tutto l’organismo».
Il paragone non è casuale. Philippe, il superiore, è medico e ha esercitato la professione. Agapetòs invece, responsabile culturale del monastero, è matematico, figlio d’arte. Mentre ci accompagnano all’uscita dell’eremo proviamo una sensazione di leggerezza: come fossimo contagiati dalla serenità di questi luoghi silenziosi.

tratto da: L’altrapagina – num.12 Dic 2002 – www.altrapagina.it